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15

November

2022

Tempo di lettura:

4 minuti

Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato.

A. Einstein

Colazione paneburro e dati? Sì! parlare di dati è d’obbligo, e con chi se ne intende davvero, da anni. Francesco Terra -che ne è anche un appassionato (caratteristica che sembrerebbe in contraddizione con la freddezza dei dati e la loro dark side) - coniuga grande umanità, profonda conoscenza del retail, e capacità iper-analitica di interpretazione. Con lui ci siamo chiesti: quali dati? Come raccoglierli e interpretarli? Come farne buon uso nel retail (ma non solo) per migliorarne le performance, definire meglio i suoi spazi, affinare l’offerta su domande e contesti sempre più complessi?

Prendetevi il tempo di pensare (e analizzare, misurare, interpretare... 😜)

Buona lettura!

Adolfo

Dear data…

Voglio premettere che i dati in sé non servono a nulla se non sono declinati in azioni coerenti: è bene disporre dei dati, ma poi bisogna saperli leggere e agire di conseguenza. I dati che raccolgo sono operativi, ricavati dagli effettivi visitatori di un centro commerciale, ma sono anche potenziali, cioè derivati dall’analisi del bacino d’utenza. Questo è un insieme da interrogare correttamente rispetto alle caratteristiche di un centro e alle domande che pone per elaborare indicatori di possibili tendenze e risposte pertinenti e mirate. Altrimenti può succedere, per esempio, che si consideri bacino d’utenza di un centro commerciale in centro città, con pochi parcheggi disponibili e accessibile prevalentemente a piedi o con mezzi pubblici, un’area definita classicamente da isocrone di guida automobilistica: e di conseguenza sbagliare le strategie pubblicitarie e di marketing. Sembra un caso un po’ al limite ma, incredibilmente, è successo!

 

Come indagare il bacino d’utenza?

I bacini d’utenza sono insiemi dinamici, si possono espandere in funzione degli eventi – in prossimità delle feste per esempio – e vanno monitorati in modo continuo. Le indagini spot, tramite questionari, sono limitanti rispetto a ciò che le nuove tecnologie permettono oggi di fare. Molti operatori si sono allineati alle nuove tecnologie abbandonando i questionari, ma anche questo è sbagliato: il dato “mobile” non dice tutto, per esempio se le persone spendono effettivamente soldi oppure no. Allora sono necessarie indagini più mirate per misurare specifici KPI. Prendiamo il footfall, che è un indicatore fondamentale ma che bisogna anche dettagliare facendo differenza tra visite e visitatori: tra un centro con un bacino di 10.000 persone che garantiscono 2 visite alla settimana e uno frequentato da un milione di persone ma una volta all’anno, il footfall è simile. Tuttavia racconta due tipi di comportamento molto diversi che influiscono sulle strategie di marketing. Poiché le aziende tendono a “clusterizzare” i propri asset (tra piccoli, medi e grandi centri) anche in base a questo parametro, se non fanno questa distinzione possono incorrere in errori. Dunque, conoscere bene il bacino di utenza, che dipende anche dai modi e dalla struttura dell’accessibilità, è la prima cosa.

 

Esistono figure adibite all’analisi dei dati e come operano?

Non c’è una figura specifica all’interno delle strutture, ci sono agenzie e consulenti esterni che svolgono letture analitiche e strategiche. Bisogna poi distinguere tra agenzia di ricerca e consulente: le agenzie sono spesso “generaliste”, indifferenti al contesto, e fanno interviste standard e preconfezionate (e per questo costano poco). Il consulente conosce il settore di riferimento e i suoi obiettivi, il Retail nel nostro caso, e riesce a dare risposte mirate perché orchestra monitoraggi più accurati (e costa molto di più). Si tratta, infatti, di conoscere le persone dietro i numeri e capire le motivazioni che guidano i comportamenti del consumatore: distinguendo, per esempio, le ragioni di un calo d’affluenza (che di per sé è un dato, un numero), ma anche anticipando i trend, l’evoluzione di un bacino di riferimento nei prossimi 10, 5 e anche 3 anni. Ciò sarebbe difficile, se non impossibile, senza contestualizzare il dato su un ambito specifico da cui estrarre le domande giuste.

 

Come rilevare informazioni così granulari?

Le indagini, ripeto, vanno fatte spesso e monitorando in modo continuativo e dinamico i contesti, anche in funzione degli eventi – oggi una pandemia, e una guerra – che cambiano radicalmente le cose: con strumenti che diano un feedback costante e inchieste non più statiche (e non più semplicemente telefoniche). Un vecchio modo consisteva in focus group, di circa 10 persone, interrogati una tantum, o una volta all’anno. Ora si creano dei panel ad hoc da interrogare frequentemente, per cui quelle 10 persone vengono assunte dalla società di ricerca per monitorare cosa succede nei diversi bacini ogni mese. Questa frequenza, e il modo molto specifico in cui sono spesso condotte le ricerche, permette un passaggio dal quantitativo al qualitativo. Oggi poi, grazie alla diffusione di piattaforme come Zoom, Teams ecc., le modalità sono cambiate ed è molto più semplice mantenere questa continuità.

 

A chi sono più utili i dati, alla proprietà o al gestore?

A entrambi in modi diversi. Al gestore per intervenire eventualmente con tattiche e attività di marketing. Alla proprietà per capire i tenant, di cui non basta sapere se pagano l’affitto o meno, ma capire il fatturato, l’evoluzione della struttura dei costi ecc. Molti tenant stanno adottando modalità di vendita non convenzionali (Click & Collect, ordine online e ritiro in negozio), il cui fatturato non è più connesso al punto vendita. Questo è rilevabile confrontando il rapporto tra numero di visitatori, fatturato e percentuale di conversione in acquisto. Sono dati primari, raccolti con le indagini, che sono poi da comporre con dati secondari, cioè quelli messia disposizione e già analizzati da altre fonti (come l’ISTAT, per esempio) che vengono riletti in funzione della propria ricerca. Ora i dati sono forniti continuamente e in grande quantità dalle nuove tecnologie, che permettono accurate profilazioni, e ci si sta sempre più spostando sulla ricerca qualitativa.

 

Quindi è l’aspetto quantitativo (leggi Big Data) a spingere verso il qualitativo?

Si, ma in un senso per cui si generano nuovi modelli e relazioni – di tipo etnografico, con interviste in profondità ecc. – su argomenti e target specifici. Come dire, una volta definito il “buyer-persona”(che conosciamo molto bene attraverso i dati) dobbiamo seguirlo dal punto divista comportamentale, e saperne capire i sintomi. Vorrei citare l’episodio di La Spezia di cui parlava Pietro Malaspina, riferito alla signora che chiedeva “un giardino di erbe aromatiche liguri”. Era un focus group del 2009! Ora è routine ragionare per elementi tipici che colleghino un centro commerciale al luogo in cui si sviluppa, ma allora quella signora è stata in qualche modo visionaria, ha suggerito qualcosa di pionieristico. Si tratta di cogliere questi indizi…

 

Eppure i dati sono spesso contraddittori. Per esempio nel discorso d’insediamento di Obama, mentre una società rilevava, con dati telefonici su circa 2milapersone, un sostanziale gradimento, da un’altra ricerca parallela emergeva che circa 4 milioni di utenti Google erano in quello stesso momento preoccupati datemi di sicurezza: due risultati opposti. Come si spiegano?

Premesso che trovo il metodo descritto interessantissimo, perché mette in relazione due approcci molto diversi sullo stesso tema, direi che forse c’era un tema di rilevamento statistico: i campioni di popolazione interrogati devono sempre essere rappresentativi dell’universo su cui si indaga– in quel caso il sentiment di una nazione – e quelli probabilmente non erano bilanciati. Ma è solo un’ipotesi. Nel caso del retail, le ricerche devono anche essere ben calibrate oltre che su campioni equilibrati – per genere, età ecc. – anche sui flussi, su corretti tempi di rilevazione nell’arco della giornata e così via. Un campionamento random, casuale, può essere utile giusto per farsi un’idea…

 

L’utilizzo dei dati è prerogativa del mondo retail o può coinvolgere altre asset class? Il residenziale per esempio?

I dati servono per qualunque asset class: per programmare, progettare e gestire. Il Retail rimane comunque il mondo tuttora più avanzato, forse perché più complesso di altri per il numero di stakeholders coinvolti. Possiamo anche dire che non è nemmeno una sola asset class, perché è più eterogeneo e comprende molte categorie merceologiche. D’altra parte ha una specificità: il consumo, che è ciò su cui si parametrano i dati e i modelli interpretativi. Nei mondi non retail i dati sono più difficilmente modellizzabili, e vedo che i livelli di ricerca pre-sviluppo sono più elementari. Nel residenziale fai un “pezzo”, aspetti il down payment, e se non arriva tutto rallenta o addirittura si blocca. La stessa CityLife ha avuto difficoltà agendo così.

 

Come gestire la complessità?

Bisogna analizzare le oscillazioni storiche e per questo ci vogliono indici utili: tasso di assorbimento, Take Up, ovvero quanto è stato venduto e in quanto tempo, sono indici molto validi su cui fare ricerca e mitigare i rischi. Il rischio finanziario dipende poi da fattori più contingenti, come i tassi d’interesse e anche puntuali leggi dello Stato che infiammano o smorzano la domanda…

 

Qual è la frontiera nelle analisi qualitative dei dati? Penso alle neuroscienze di cui ci stiamo occupando da molti anni, alla realtà virtuale (VR),al rapporto con l’intelligenza artificiale (AI), ad alcune evidenze d ineuromarketing che abbiamo riscontrato nella progettazione (per esempio nel disegno dei pavimenti dove le linee continue sono percepite come barriere). Ingenerale, la conoscenza dei dati è utile per la progettazione dello spazio?

Sicuramente è una nuova frontiera. Credo però che la progettazione, più che sui dati (per ora poco utilizzati), sia ancora molto fondata sulla consapevolezza dello spazio: sulla coerenza con ciò che circonda un nuovo spazio Retail, sulla visibilità, l’accessibilità, il contesto. Processi più analogici e consolidati insomma. Tuttavia la ricerca basata sulla VR si fa ed è utilissima (per monitorare le reazioni emotive a diversi scenari), ma ancora costosa. Oggi si parla molto di Metaverso, ma soprattutto per il prodotto, meno per lo spazio. Così come l’AI, fondamentale quando hai i “Big Data” da processare, si sta anche usando per creare collezioni di abbigliamento, con linee guida definite da grandi quantità di dati.

 

Ma possiamo capire i trend futuri del Retail, definire delle linee guida, partendo dalla conoscenza dei dati?

Posso delineare il quadro attuale che sta emergendo. Oggi c’è una minore frequentazione dei centri, lo shopping ha un peso minore, ci sono altre preferenze e attività: il benessere, lo sport, dopo il Covid sono tornati al centro. Abbiamo un minore uso dell’automobile, soprattutto nei centri urbani, e più mobilità elettrica: questo influisce sui parcheggi, ma anche sulla localizzazione. C’è poi una minore presenza di famiglie con bambini(forse anche questo legato alla pandemia, per evitare assembramenti). A fronte della minore frequentazione, la spesa media per visita è più alta: si va per fare acquisti, il che è un arretramento rispetto alla “centralità” degli spazi sociali e di aggregazione su cui si sono sviluppati i centri in questi anni. Quindi possiamo chiederci: tutto ciò è un fenomeno passeggero, frutto del periodo storico, o si sta radicando nei comportamenti futuri? Difficile dirlo. Anche il recupero post-pandemia sta rallentando (eppure i fatturati sono in aumento) e oggi abbiamo altre cause esogene – la guerra, l’inflazione – che deprimono e hanno un impatto negativo sull’indice di fiducia. Sappiamo che questo indice ha una stretta correlazione con le vendite al dettaglio, e ciò può influire sulla vitalità stessa del centro, poiché la visita è oggi più legata all’acquisto. Come rispondere? Lavorando proprio su quella vitalità,sull’immagine del centro commerciale come luogo in cui sia piacevole andare aldi là dell’acquisto: recuperando la sua frequentazione come spazio diconvivialità e socialità. E questo è basato sui dati.

 

Beh, questa è già un’indicazione importante per il futuro… Un’ultima domanda per chiudere: sempre più giovani si dedicano ai dati, e abbiamo ormai capito che tra collezionarli e saper dare loro un valore aggiunto c’è una grande differenza. Come imparare a farlo nel Retail?

Sicuramente passare per l’Operation. Passare tempo nel centro commerciale, capire come vive e come funziona. Un’esperienza di Property Management credo sia insostituibile. Non dobbiamo dimenticare che ogni ricerca è sempre in funzione di un problema: bisogna conoscere il contesto in cui il problema si genera, e capirne gli obiettivi.

Francesco Terra

Francesco è oggi parte del Retail Leadership Team di CBRE IM, si occupa di Retail Asset Strategy. Da vent’anni analizza i dati per guidare le scelte, capire le dinamiche di consumo e migliorare le esperienze di acquisto. Studia il mercato per comprenderne le potenzialità ed indirizza le strategie commerciali e di posizionamento.

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