04
October
2022
Tempo di lettura:
5 minuti
B. Joseph Pine II - James H. Gilmore
Oggi a colazione abbiamo Pietro Malaspina!Una vita dedicata allo sviluppo del Retail e il piacere di raccontarla.
Per noi, il privilegio di ascoltarla. Era il 1970 quando Pietro Malaspina ha iniziato a occuparsi di Retail. Da allora il mondo non è cambiato, ha subito una rivoluzione copernicana! Conversare con lui è stata una piacevole occasione per parlare dei mutamenti del settore, dagli esordi nordamericani – studiava a Pittsburgh negli anni 1956-1957, gli stessi anni di nascita del centro commerciale, per dire… – ai nostri turbolenti giorni. Cosa è cambiato? Dove stiamo andando? Prendetevi il tempo di pensare, buona lettura!
Adolfo
Era il 1970 quando ho iniziato a occuparmi di questo settore, 52 anni fa. Da allora il mondo non è cambiato, ha subito una rivoluzione copernicana! Nella gente, nel retail, e nell’immobiliare. Se pensiamo alla rilevanza dell’architettura, per molto tempo è stata una componente secondaria, persino accidentale, dell’immobiliare retail. In alcuni settori lo è tuttora (ad esempio nel mass-market food e nel big box retail) perché l’identità e ilvalore dell’immobile stanno solo nel marchio, declinato con insegne giganti su fronti anonimi. Per altri format – i Department Store per esempio – è sempre stata importante, soprattutto se occupano interamente un edificio che diventa quindi parte essenziale dell’identità dell’insegna: pensiamo alla Rinascente di Milano o di Roma, alle Galeries Lafayette di Parigi, a Harrods di Londra, insegne che non identificano l’offerta di un prodotto o di una gamma di prodotti in modo ripetitivo ma un “negozio-luogo” dotato di una propria individualità. Quando invece un retailer occupa tipicamente un piede d’edificio, l’importanza dell’architettura rimane sostanzialmente all’interno e spesso si esaurisce nel layout. Paradossalmente in questo caso un edificio anonimo fa anche più gioco, perché non distrae e non entra in competizione con l’insegna. Se poi parliamo di centri commerciali, lo spazio architettonico è sempre più rilevante perché è la vera identità del centro che deve chiaramente indicare che non è solo un contenitore, ma molto dipiù. Per me è sempre stato così (e mi guardavano storto…)
Per l’industria dei centri commerciali è stato un lungo processo, molto graduale e spesso inconscio. Ma un momento particolare in cui ciò che stava accadendo diventò chiaro, almeno per gli osservatori più attenti, è la fine degli anni 1990. Più precisamente, nel luglio 1998 la Harvard Business Review pubblica un articolo che si può considerare il testo fondamentale per la comprensione del retail moderno: “Welcome to the experience economy” di B. Joseph Pine II e James H.Gilmore. Gli autori teorizzano una scansione della storia economica in quattro fasi: commodities, goods, services, experiences. Si può ampiamente dissentire da questa sequenza, ma di fatto ciò che rileva ed è cruciale è la natura dell’ultima fase, quella in cui ci troviamo: chi compra non cerca più solo beni e servizi ma vuole che questi siano articolati e proposti in modo tale da fornire una gratificante esperienza, che è il vero oggetto dell’acquisto e che trasforma un’attività utile in una gratificazione emotiva. Credo che da allora il Retail abbia capito cosa era diventato e che il focus non era più solo offrire beni o servizi ma combinarli per generare esperienze, metterle in scena: “to stage experiences”. Da qui deriva l’estrema importanza del contesto: dal contenuto e quindi il visual display –che non è più funzionale ma emotivo – al contenitore e quindi la forma architettonica, sia esterna che interna, dei luoghi del retail.
Certo, e si riflette nell’edificio. Il centro commerciale è tutto questo insieme (perché le quattro fasi non si escludono a vicenda ma si cumulano). In Italia negli anni ’70 era una striscia di pavimento di fronte alle casse dell’ipermercato con aria condizionata, due o tre negozi, tabaccheria, lavanderia e un bar: una pura “procurement machine”, un impianto di rifornimento. Oggi l’ipermercato è un optional, ci sono più spazi dedicati alla ristorazione e al divertimento che ai negozi ed è più importante la qualità dello spazio pubblico che il numero dei negozi. L’obiettivo non è far comprare ma far stare bene, e quindi devo dare un’atmosfera, avere una personalità. Altrimenti rimane un non-luogo alla Marc Augé (ovvero standardizzato e anonimo, ma per Augé questo è, o era, l’ipermercato e non il centro commerciale) e invece deve assolutamente essere un luogo. Di questo termine abusato una bella definizione la danno Venturi e Zandonai (Dove, Egea, 2019): “In sintesi, i luoghi sono spazi fisici e virtuali dove relazioni sociali, economiche e tecnologiche producono significati condivisi”. Un’altra frase che mi piace citare è: “We live to experience and we experience to share” (Livit Design). Ora, esperienza e significati condivisi diventano memoria collettiva, e questa crea comunità. E le comunità cercano luoghi in cui coltivare rapporti e relazioni. Inizialmente negli Stati Uniti non capivo perché i ragazzi dicessero “Let’s go to the Mall”. A fare cosa?“Just to go around…”. Bene, quindi non a comprare ma a sviluppare socialità, possibilmente in un posto piacevole in cui stare bene. Nei centri commerciali è questo il ruolo degli spazi comuni, i quali ormai arrivano a costituire il30/35% della GLA.
Credo da nessuna parte. Necessariamente c’è un punto di equilibrio e su questo dobbiamo ragionare. Teoricamente per avere una quantità crescente di spazi comuni e mantenere costante la redditività, dovrei proporzionalmente aumentare il reddito locativo, aumentando o la GLA o il livello degli affitti, ma non è affatto detto che il mercato – della domanda e dell’offerta – lo permetta, anzi, accade di rado. Se il centro commerciale è in una zona urbana consolidata, ci sono meno problemi, perché c’è una potenziale ottimizzazione della GLA integrando la componente retail interna al centro con spazi pubblici esterni adiacenti e con attività di servizio o di intrattenimento già presenti in prossimità. Se sono in campagna devo metterci dentro tutte le integrazioni possibili e una robusta quota di spazio pubblico e rischio il punto di rottura. L’ultimo (e bellissimo)progetto al quale ho collaborato era di oltre 140.000 mq di GLA, e portare avanti operazioni di questa dimensione è comunque un problema. Non dimentichiamoci che il centro commerciale è nato negli USA in un preciso momento storico in coincidenza con la contemporanea esplosione post bellica della popolazione, della domanda di nuove case e della mobilità individuale. Con il conseguente fenomeno dell’urban sprawl, la gente si è suburbanizzata e il commercio ha rincorso una residenza senza nulla intorno, creando strutture che rispondevano sia alle esigenze commerciali che a quelle di aggregazione sociale. Non è vera la storia che gli “shopping centers” hanno creato i “suburbs”, né è vera la versione francese del “commerce moteur du dévèloppement urbain”, è vero il contrario. Tant’è che ora, in una fase di ritorno alla città della popolazione, il centro commerciale entra in città, in formato urbano, seguendo i flussi demografici. Oggi il grande centro commerciale fuori città è molto, ma molto meno interessante.
Ti propongo uno schema evolutivo: prima il Department Store, storicamente nato da Gruppi – Rinascente, Galeries Lafayette, Paradis Des Dames ecc. – che propongono una selezione e scelgono per te; poi il centro commerciale, che dà l’illusione che sia tu a decidere la navigazione tra i prodotti; oggi una terza ondata: cluster urbani, definiti per classi e piccoli gruppi sociali, anche molto frammentati… come muoversi attraverso queste diverse letture, che in realtà non si escludono?
Infatti nessuna esclude l’altra. Il fatto è che il driver non è più lo sviluppatore, e soprattutto non esiste un concept condiviso di centro commerciale: ognuno è diverso sulla base della comunità e del segmento di mercato che intende servire. Quindi devo fare un’analisi estremamente approfondita, investire molto per leggere e capire la comunità: non il consumatore – quello viene dopo - ma ciò che viene prima di lui, cioè il cittadino, l’abitante. Perché dovrebbe venire da me? Cosa va cercando? Cosa si aspetta e non trova? E devo saper interpretare informazioni apparentemente senza alcuna utilità. Se a La Spezia una signora ci dice che in un nuovo centro commerciale vorrebbe “un giardino di erbe aromatiche liguri”, ciò forse significa: voglio che questo nuovo posto abbia elementi tipici che lo colleghino al luogo in cui è.
La risposta canonica dice: ogni 5 anni un “face lift”, ogni 15/20 anni una deep renovation. Ma è astratta e valida solo per costruire il Business Plan. In realtà bisogna essere merceologicamente in mutazione continua, ma ciò si scontra con le normative (i contratti in Italia sono di 6 anni, e solo qui, all’estero sono di 3 e anche meno), e soprattutto il rinnovamento non deve cercare chi paga di più, ma chi nell’insieme rende più attrattivo il tuo investimento.
Non nel senso di un’insegna che identifichi diversi centri commerciali. Non gli conviene e non è nella sua natura di aggregatore: il centro commerciale non vende prodotti ma crea le condizioni affinché questi siano venduti nel quadro di un’esperienza complessiva gratificante, da condividere e ripetere.
Il factory outlet ha un segmento di offerta predefinito: i luxury goods a prezzo fortemente scontato. Non è rilevante quale siano le caratteristiche della popolazione nella catchment area, che è peraltro vastissima, estendendosi oltre le due ore di tempo di accesso, e con una forte componente turistica, in particolare di clienti stranieri. Non c’è alcun riferimento al territorio in termini di integrazione sociale, a parte ovviamente l’impatto molto positivo sull’occupazione. La sensazione di un format comune deriva dalla quasi totale identità di marchi e di politica commerciale. Fortunatamente cominciamo a vedere delle differenze anche notevoli in termini di concept architettonico, dopo anni di ripetitività del modello “finto villaggio”.
Si stanno ibridando un pochino, ma più sul versante centro commerciale/retail park: lì stiamo andando verso una convergenza quasi totale. Da una parte il centro commerciale tende ormai a essere aperto, quindi strutturalmente simile al retail park, in più, se non è molto grande, integrandosi con elementi del retail park potrebbe accogliere operatori non disposti ad accettare il costo di spazi di un centro commerciale.
Diversificandola per zone. Se ho un “market killer”, lo posiziono in modo da non dover attraversare tutto il centro per raggiungerlo. Collocare l’ipermercato in fondo a un percorso comune ai negozi per garantire irrorazione è un pensiero vecchio: oggi l’iper è decentrato e stand alone, perché chi va lì non vuole fare shopping ma procurement, rifornimento. Ciò avviene con l’arrivo dei grandi specialisti – dell’abbigliamento, degli elettrodomestici, dello sport – che, molto più bravi nel loro settore, rispondono a un mercato al quale l’iper non sapeva rispondere. Aggiungendosi come attrattori, l’iper è stato “isolato”.
È un grande problema. Oggi l’unico developer possibile è il developer-owner che si tiene il prodotto in pancia e dopo dieci o vent’anni lo rivende confidando in altissimi margini. Chi non può permetterselo, o non ha questa visione, non trova i finanziamenti necessari perché nessuna banca ha una visione positiva di medio/lungo periodo del commercio come attività fisica. Ce l’ha del commercioin sé (che ha già superato comunque la contrapposizione fisico/digitale) ma non del contenitore, e quindi dell’immobiliare commerciale, soprattutto se extraurbano perché è difficilmente convertibile (se urbano è diverso). Questo porta alla mancanza di sviluppatori e quindi, sono d’accordo, alla scarsa dinamica del settore.
Siamo comunque in un momento di ripensamento del format, che deve rivisitarsi e lo sta anche facendo, ma il problema è lo stock esistente che è notevole e spesso molto difficile da rinnovare realmente. Cosa facciamo? È convertibile? Anche in termini di localizzazione: puntiamo sul ritorno nei centri storici e gentrifichiamo, espellendo i ceti popolari fuori città, e poi rifacciamo per loro nuovi centri commerciali suburbani?
Extraurbano è troppo generico. C’è il periferico, che sicuramente ha un futuro. C’è l’extra urbano baricentrico rispetto a una pluralità di centri urbani minori, che se ben concepito e correttamente dimensionato rimane interessante. C’è poi il vero extraurbano, relativamente lontano dagli aggregati urbani e su assi di comunicazione interurbani. In realtà non credo che progetti di quest’ultimo tipo abbiano un futuro, almeno nel breve/medio termine. A meno che non facciano parte di operazioni mixed-use così vaste da assicurare un bacino di utenza minimo e di diventare nel tempo un attrattore per ulteriore nuova residenza.
Più che altro demolirli e riutilizzare l’area, sono molto difficilmente convertibili, se non forse in uffici, ma la location è di solito inadatta per questo utilizzo.
Confesso che non lo so, ci sono troppe variabili in gioco. So che, in ogni caso, un centro commerciale deve soddisfare alcuni requisiti:
E poi non perdere mai di vista i fondamentali:
Un’estremizzazione che spero che non succeda mai… io le idee migliori le ho sempre avute davanti alla macchina del caffè, ed erano normalmente non mie!
Pietro Malaspina
Più di 50 anni di esperienza nello sviluppo del Retail, saldo sui valori fondamentali ma sempre innovativo e alla ricerca dell’inespresso. Una voce imprescindibile.
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Paneburro è la newsletter mensile di Adolfo Suarez che raccoglie pensieri, riflessioni e suggestioni sul mondo del Retail. Storie e visioni del contemporaneo condite con il poco che abbiamo, che poi è l’essenziale. Un po’ alla bread&butter, come direbbero gli Inglesi, ma sempre con il nostro tocco creativo.
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